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giovedì 23 agosto 2012

Appunti di vista: Nero di Puglia



La bellezza di parlare e discutere con i propri cari è quella di attingere a informazioni e idee a te ignare. In questi discorsi sono venuto a conoscenza di un libro di un autore pugliese, edito da Feltrinelli nel 1980: “Nero di Puglia “, di  Antonio Campobasso.

Un nome che ad una prima occhiata può non dir nulla, ma che invece porta su di sé una storia di emarginazione, solitudine e ingiustizia: la storia di un “figlio della guerra”.

Nato il 2 giugno 1946, lo stesso giorno della proclamazione della  Repubblica Italiana, Antonio è figlio di un soldato statunitense rientrato in patria alla fine del conflitto,  e di una ragazza madre, una donna che, lasciata sola, non ha avuto la forza di crescere suo figlio in un meridione che non accetta i nati “bastardi”, figuriamoci se di colore. Ciò la porta ad abbandonare il suo bambino per trasferirsi nel Regno Unito con un inglese.
Rimasto solo e accudito dalla nonna nel paese di Triggiano, il giovane Campobasso comprenderà ben presto cosa vuol dire crescere soli in un ambiente in cui il pregiudizio e l’ignoranza la fanno da padroni, trascinandolo in una spirale senza fine che lo condurrà dall’Orfanotrofio di Giovinazzo al riformatorio di Bari, fino al carcere di Poggioreale.

Difficile dare una definizione di quest'opera, certamente singolare rispetto al panorama letterario contemporaneo: non è un romanzo, e nemmeno una autobiografia. Quello che l’autore mette in mostra è una prosa - interrotta a tratti per cercare il ritmo dei versi -  densa di rabbia, tristezza e malinconia. È un grido di denuncia, di un’infanzia e di un’adolescenza rubate, della ricerca di affetto e amore (rappresentata dall’autore dai continui riferimenti alla madre) in cui Antonio non reprime la sua indignazione, lasciandola intatta nello scorrere dei versi, ricchi di imprecazioni e bestemmie. Ma è proprio in questo modo che l’autore mantiene la potenza suggestiva e lirica delle parole, e la poesia diviene un espediente per restituire la rabbiosa volontà di denuncia dell’autore:

“Gloria alla vecchia,
che più di cristo merita altari,
più di ogni dio insignificante
vuole che le si paghino
inni saltati e cantati
come in una foresta africana.
E' giusta, è grande,
ha patito ora per ora
in una storia che non è quella dei grandi.
I suoi stracci sono vestiti di luce,
il suo volto
mette fuori fulgori,
costringe i serafini del tempio
a coprirsi gli occhi,
copre di vergogna i santi di dio.
I tozzi di pane lemosinati
sono più sublimi di ogni assurda eucarestia.
Il negro, il bastardo,
lo ha fatto creatura
con il calore del suo corpo.
E' in mezzo ai cori degli ordini angelici,
se mai sono al di là dei cieli di pietra.”

Un’opera meravigliosa nella sua testimonianza, in cui Campobasso delinea le sue emozioni imprimendole su carta, quasi seguendo un immaginario spartito.
Dopo la conclusione delle sue disavventure, Antonio Campobasso si è ripreso la sua vita; ha studiato alla scuola di arti sceniche ed è stato assistente alla regia. Vive a Roma, e il suo ultimo lavoro è il film “Il mercante di stoffe”, di Antonio Baiocco.

Non so se Antonio leggerà questa breve elogio alla sua opera; tutto ciò che vorrei esprimere è solo la mia gratitudine per questa testimonianza verso la Puglia e la società italiana, e il rammarico da parte nostra per averlo condotto a pagare colpe di cui non ha mai avuto responsabilità.

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