La bellezza di parlare e discutere con i propri cari è
quella di attingere a informazioni e idee a te ignare. In questi discorsi sono
venuto a conoscenza di un libro di un autore pugliese, edito da Feltrinelli nel
1980: “Nero di Puglia “, di Antonio
Campobasso.
Un nome che ad una prima occhiata può non dir nulla, ma che
invece porta su di sé una storia di emarginazione, solitudine e ingiustizia: la
storia di un “figlio della guerra”.
Nato il 2 giugno 1946, lo stesso giorno della proclamazione della
Repubblica Italiana, Antonio è figlio di
un soldato statunitense rientrato in patria alla fine del conflitto, e di una ragazza madre, una donna che,
lasciata sola, non ha avuto la forza di crescere suo figlio in un meridione che
non accetta i nati “bastardi”, figuriamoci se di colore. Ciò la porta ad
abbandonare il suo bambino per trasferirsi nel Regno Unito con un inglese.
Rimasto solo e accudito dalla nonna nel paese di Triggiano,
il giovane Campobasso comprenderà ben presto cosa vuol dire crescere soli in un
ambiente in cui il pregiudizio e l’ignoranza la fanno da padroni, trascinandolo
in una spirale senza fine che lo condurrà dall’Orfanotrofio di Giovinazzo al
riformatorio di Bari, fino al carcere di Poggioreale.
Difficile dare una definizione di quest'opera, certamente
singolare rispetto al panorama letterario contemporaneo: non è un romanzo, e
nemmeno una autobiografia. Quello che l’autore mette in mostra è una prosa - interrotta
a tratti per cercare il ritmo dei versi - densa di rabbia, tristezza e malinconia. È un
grido di denuncia, di un’infanzia e di un’adolescenza rubate, della ricerca di
affetto e amore (rappresentata dall’autore dai continui riferimenti alla madre)
in cui Antonio non reprime la sua indignazione, lasciandola intatta nello scorrere
dei versi, ricchi di imprecazioni e bestemmie. Ma è proprio in questo modo che
l’autore mantiene la potenza suggestiva e lirica delle parole, e la poesia diviene
un espediente per restituire la rabbiosa volontà di denuncia dell’autore:
“Gloria alla vecchia,
che più di cristo
merita altari,
più di ogni dio
insignificante
vuole che le si
paghino
inni saltati e cantati
come in una foresta
africana.
E' giusta, è grande,
ha patito ora per ora
in una storia che non
è quella dei grandi.
I suoi stracci sono
vestiti di luce,
il suo volto
mette fuori fulgori,
costringe i serafini
del tempio
a coprirsi gli occhi,
copre di vergogna i
santi di dio.
I tozzi di pane
lemosinati
sono più sublimi di
ogni assurda eucarestia.
Il negro, il bastardo,
lo ha fatto creatura
con il calore del suo
corpo.
E' in mezzo ai cori
degli ordini angelici,
se mai sono al di là
dei cieli di pietra.”
Un’opera meravigliosa nella sua testimonianza, in cui
Campobasso delinea le sue emozioni imprimendole su carta, quasi seguendo un
immaginario spartito.
Dopo la conclusione delle sue disavventure, Antonio
Campobasso si è ripreso la sua vita; ha studiato alla scuola di arti sceniche
ed è stato assistente alla regia. Vive a Roma, e il suo ultimo lavoro è il film
“Il mercante di stoffe”, di Antonio Baiocco.
Non so se Antonio leggerà questa breve elogio alla sua
opera; tutto ciò che vorrei esprimere è solo la mia gratitudine per questa
testimonianza verso la Puglia e la società italiana, e il rammarico da parte
nostra per averlo condotto a pagare colpe di cui non ha mai avuto responsabilità.
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