“È il 1986, c'è la
guerra in Afghanistan. C'è sempre una guerra in Afghanistan. I tre quarti della
popolazione afghana di oggi non hanno conosciuto altro tempo che quello di
guerra. Ogni guerra prepara e spiega la guerra successiva, come nel resto del
mondo, solo che in Afghanistan l'intervallo che chiamiamo pace è breve fino ad
annullarsi. I sovietici nel 1979 invasero brutalmente il paese, confidando di
dilazionare la propria agonia, e ne avrebbero ricevuto di lì a pochi anni il
colpo di grazia. Contro l'Urss, gli americani sostennero soprattutto gli
islamisti afghani che poi si sarebbero impadroniti del potere facendone una
tirannide forsennata e una base del terrorismo jihadista. La resistenza
patriottica e laica fu lasciata a se stessa e tradita. Spodestati dopo l'11
settembre 2001, i talebani conducono una guerriglia irriducibile in gran parte
del paese. Il luogo comune parla del "rebus afghano”
( Dalla prefazione di Adriano Sofri nell'edizione italiana
de Il fotografo)
Dopo Alain e i rom,
propongo nel mio blog l’analisi di questo meraviglioso volume grafico, Il fotografo, edito in Italia da Coconino
Press-Fandango, in collaborazione con Medici senza frontiere.
Nel 1986 l’Unione Sovietica
ha invaso l’Afghanistan e lo occupa da sette anni, contro la resistenza
dei mujaheddin. Medici senza frontiere impiantano e gestiscono ospedali di
fortuna nelle zone più impervie e pericolose del paese. La loro presenza poggia
in particolare sulle spalle di una donna, Juliette Fournot, "Jamila"
per gli afghani, stupiti da quella donna influente come un uomo e che parla bene il dari, il farsi parlato in
Afghanistan.
Juliette è cresciuta a Kabul, figlia di una coppia di
francesi, e la sua associazione ha bisogno di far conoscere i disastri della
guerra e le condizioni estreme in cui i suoi volontari devono operare. Decide
quindi di proporre a un fotografo di unirsi a una sua missione per realizzare
un reportage. Juliette ha visto su una bacheca della sede parigina di MSF
qualche fotografia scattata in Eritrea e ne è rimasta colpita. L'autore è
francese, si chiama Didier Lefèvre, è nato nel 1957, non ha ancora trent'anni.
Si è laureato in farmacia prima di dedicarsi al fotogiornalismo; lui accetta
senza esitazione. Comincia un'avventura che durerà tre mesi, e metterà a repentaglio
le vite dei protagonisti.
Didier torna infine a Parigi portandosi dietro quattromila
clichés di bianco e nero: il 27 dicembre 1986 ne escono sei su due pagine del
quotidiano Libération. Passano tredici
anni da quel ritorno, e il suo amico Emmanuel Guibert, disegnatore e
illustratore, propone di creare un libro dal racconto appassionato e
rocambolesco. Ne verrà un’opera singolare per l'ambizione e la concezione: alle
centinaia di fotografie si alternano strisce disegnate, a riempire gli
intervalli del racconto di Didier, e le trascrizioni del suo testo, sceneggiate
come in un film. L'impaginazione sarà opera di un terzo amico, Frédéric
Lemercier. Dove hanno bisogno di trascrivere frasi pronunciate in farsi, gli
autori si fanno aiutare da Marjane Satrapi (autrice di Persepolis).
È un'opera straordinaria e grandiosa, capace di assicurare la
memoria di una guerra particolare e di un aspetto particolare dentro quella
guerra. Sono rimasto impressionato e trascinato dalla lettura e dalla visione
del libro: è difficile che un'esperienza avventurosa e drammatica venga
raccontata, pur nella pienezza dei nostri media, fin nei suoi dettagli
quotidiani e ordinari e superflui.
Infatti, nel racconto del fotografo, fotografie,
disegni e testo collaborano e si alternano delicatamente, assicurando ai momenti
culminanti e drammatici ( il rischio, la morte, la commozione) un contesto in
cui ciascun lettore possa riconoscersi: immaginarsi medico senza frontiere o
fotoreporter di guerra, padre o bambino di un villaggio afghano, combattente e persino l'asino scivolato dentro un baratro
col suo carico soverchio o il cavallo morto d'inedia lungo un passo montano.
Un libro scioccante e dall’incredibile impatto visivo, che
riesce a conciliare linguaggi tanto diversi come la fotografia e il fumetto.
Queste è stata la mia personale reazione alla lettura del volume: ne ho letto avidamente
le prime pagine; poi, andando sempre più avanti, ho cominciato a subire tanti piccoli colpi nel
mio animo; infine, giunto a metà della lettura, ho dovuto un attimo riporlo sul
tavolo; ho osservato per bene la sua copertina e, d’un tratto, mi sono reso
conto che… una lacrima solcava il mio viso.